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Enti montani, urge cambio di passo e ruolo

Pubblicato il 05/12/2022
Enti montani, urge cambio di passo e ruolo

L’analisi del “sistema montagna” sul Territorio italiano è materia assai complessa, specie se rapportata ai concetti di sostenibilità, ripopolamento e soprattutto dissesto idrogeologico, che tratteremo nel dettaglio.

E qui urge una prima precisazione... il titolo riporta correttamente la definizione “Enti Montani”, anche se in realtà è forse opportuno parlare di Comunità Montane che per opinabili motivazioni politiche sono state parzialmente cancellate, nei tempi recenti, specie in alcune zone del centro – sud Italia senza che le rispettive competenze operative siano state di fatto assorbite dagli Enti Locali (ne vedremo poi le conseguenze).

In una recente intervista lo stesso Presidente di UNCEM - Unione Nazionale dei Comuni, delle Comunità e degli Enti Montani - ha ribadito quelle che sono le priorità per un paese fatto per la gran parte di montagna, il 55% del territorio con oltre 3.800 Comuni.

Significativa di proposito la citazione di un aspetto, poco conosciuto ma cruciale, della ricomposizione fondiaria. La frammentazione delle proprietà è un’emergenza; mi spiego meglio: sulle Alpi abbiamo almeno 40 milioni di particelle catastali – prati, pascoli, foreste parcellizzate in micro-porzioni.

Ci si è arrivati nell’ultimo secolo, i passaggi ereditari hanno portato a questo: abbiamo una media del 40% di particelle di cui non si conoscono i proprietari. È necessario, pertanto, un’azione di ricomposizione a livello nazionale, fondamentale per lo sviluppo di un’agricoltura montana produttiva e di una salvaguardia ambientale concreta.

In Francia è stato fatto, è certamente complesso ma bisogna lavorarci per consolidare una base strutturale solida.

Ritornando al ruolo delle Comunità Montane, occorre sottolineare che questi Enti hanno già dimostrato in passato di funzionare, essendo i luoghi in cui condividere processi di sviluppo/investimento ove poter elaborare la strategia che conta ed i modelli che si vogliono perseguire per i territori.

 

Perché dunque auspicare un cambio di passo e un rafforzamento del ruolo istituzionale?

Concettualmente non è difficile da comprendere, i paesi piccoli non ce la fanno sia in termini di risorse che di capacità propositiva e programmatoria. In questi mesi stiamo vivendo il dramma delle tragedie ambientale legate al dissesto idrogeologico su territori fragili ove la prevenzione non raggiunge livelli di efficacia; pensate che ISPRA ha quantificato in 6 milioni la popolazione insediata in zone a rischio!

 

Cambia gioco-forza la metodologia di approccio alla problematica della salvaguardia ambientale sin d’ora ancorata al concetto di vulnerabilità territoriale, che ha solamente cristallizzato un’individuazione delle zone a rischio senza un’effettiva proposizione di misure di salvaguardia.

La nuova frontiera viene pertanto esplicitata dall’innovativo concetto della capacità di adattamento dei Territori, ossia la “messa a terra” di tutti gli interventi di carattere strutturale e gestionale in grado di limitare nel tempo episodi di distruzione ambientale e di perdita di vite umane, con sempre maggior ricorso allo stato di emergenza da parte delle Regioni.

È infatti palese la necessità di attivare realtà amministrative di carattere sovracomunale – le Comunità Montane appunto – atte ad azzerare o perlomeno arginare il fenomeno del mancato utilizzo di fondi statali da parte degli Enti beneficiati. Perseguire la responsabilità di chi non spende, ossia l’inerzia dei Sindaci invischiati da sempre nelle criticità di rapporto con i propri concittadini, è elemento fondante di una nuova politica di difesa attiva del territorio nazionale.

Pensiamo ad esempio agli innovativi modelli di ENEA per prevedere aree di propagazione ed impatto delle colate rapide, ossia quelle frane veloci con carattere altamente distruttivo che vediamo oramai con sempre maggior frequenza; con le tecnologie attuali, infatti, non è più impossibile stimarne le soglie di innesco in base al contenuto di acqua dei terreni instabili di copertura.

Questo può comportare dinamiche mai affrontate finora, si parla per la prima volta di delocalizzazione di nuclei abitati in “zona rossa” attraverso programmi di sostituzione edilizia in ambiti a basso rischio.

Nasce quindi l’esigenza di adottare su larga scala misure di mitigazione del rischio, che individuino le azioni strutturali e non strutturali più idonee - tra cui scelte urbanistiche più resilienti, un sistema di allerta precoce e piani di Protezione Civile vincolanti.

Dal quadro esposto si evince quindi la necessità di assumere a livello sovracomunale un ruolo programmatorio e progettuale che possa essere recepito dagli Enti Territoriali nell’ambito di Accordi di Programma finalizzati al cofinanziamento delle opere.

 

Articolo di Danilo Villa, Consigliere UNITEL.

 

 

                                                                     

                                                                    


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