Con la sentenza 1213 del 17 giugno del 2008 il T.A.R. Sardegna (sezione II) tratta il tema dell’annullamento d’ufficio della concessione edilizia (nella Regione Sardegna il titolo edilizio ha conservato questo nome, anche se nel resto d’Italia, ai sensi del Testo Unico dell’edilizia approvato con d.P.R. 380/2001 il titolo autorizzativi alla costruzione si chiama “permesso di costruire”) avvenuto attraverso un “atto di ritiro”.
La sentenza è interessante da analizzare sotto due aspetti: da un lato, l’aspetto sostanziale, il fatto perché l’intervento richiesto che non coincide con quello realmente da eseguire; dall’altro l’aspetto del diritto nella applicazione dell’annullamento d’ufficio del titolo rilasciato, con l’analisi delle modalità da seguire, non osservate nella fattispecie.
Il fatto, analizzato nella citata sentenza, prende avvio dalla richiesta, avanzata dalla ricorrente, di ricostruzione di un manufatto fatiscente, insistente su un terreno di sua proprietà, per cui era stata data la concessione edilizia, previa acquisizione del nulla osta paesaggistico da parte dell’Ufficio tutela paesaggio dell’Assessorato regionale alla pubblica istruzione (1).
L’Assessorato, in contraddizione con il rilascio del titolo, invia una comunicazione di avvio del procedimento di annullamento della concessione edilizia rilasciata; il procedimento seguito è quello previsto dalla legge 241/1990, novellata nel 2005, ai sensi dell’articolo 21-nonies, che prende avvio con la relativa comunicazione all’interessata.
Il conseguente atto dovuto è l’annullamento della concessione edilizia rilasciata dal comune alla ricorrente, che discende da una azione amministrativa che non ha alcuna discrezionalità ma è sottoposta alla conseguenza di legge, già predefinita.
Avverso tale annullamento ricorre l’interessata adducendo motivi di violazione di legge e falsa applicazione della stessa, invocando la mancata applicazione dell’articolo 10 bis della legge 241/1990 (va ricordato, tuttavia, che siamo in un procedimento di secondo grado, di controllo e di annullamento di un atto di primo grado, già perfezionato e rilasciato per cui l’articolo 10 bis della legge 241/90 non dovrebbe trovare alcuna applicazione) e delle leggi regionali che regolano la materia, oltre alla contestazione di non aver eseguito una corretta istruttoria che portasse a capire bene quale fosse la situazione prima del rilascio del titolo.
A queste obiezioni i Giudici sardi rispondono premettendo l’importanza che ha la classificazione dell’intervento edilizio da eseguire, per il rilascio o il deposito del titolo edilizio ad esso collegato.
E scrivono: “ed invero, la collocazione dello stesso (fabbricato di cui si chiede la ricostruzione) nell’ambito del “risanamento di un fabbricato già esistente” lo renderebbe immune dall’osservanza delle disposizioni edilizie poste dall’ufficio regionale a fondamento dell’atto di annullamento, giacché queste, per la loro applicazione, presuppongono la sua qualificazione in termini di nuova costruzione”.
Siamo al nodo della questione: la ricorrente aveva richiesto di ricostruire un fabbricato fatiscente, mentre la Regione considera il rudere non alla stregua di un fabbricato, per cui si potrebbe applicare la fattispecie del risanamento conservativo, ma alla stregua di un manufatto per il quale gli interventi edilizi possono essere qualificati solo come nuova costruzione.
La distinzione tra le due definizioni di nuova costruzione e ristrutturazione di un organismo esistente non è di poco conto; infatti le due fattispecie sono riconducibili a titoli edilizi diversi: la prima al permesso di costruire (nella regione Sardegna alla concessione edilizia), la seconda alla dichiarazione di inizio di attività.
I giudici stessi ricordano che prima la legge 457/1978 e ora lo stesso testo unico dell’edilizia, già citato, legge di principi sull’edilizia a livello nazionale, all’articolo 3 prevede che gli interventi conservativi e di ristrutturazione siano effettuati su organismi che conservano, almeno, i muri perimetrali e abbiano delle strutture orizzontali e una copertura.
Non è così quando vi sia un rudere, che può essere una traccia della preesistente costruzione, ma non è, esso stesso, una costruzione; infatti alcuni muri residui di un fabbricato non più esistente non possono essere definiti un manufatto e non è possibile denominare gli interventi da eseguire sullo stesso come ristrutturazione o risanamento conservativo.
Il diritto pretorio sull’argomento è pacifico e il T.A.R. Sardegna cita molti precedenti in tal senso.
Ancora lo stesso ricorda che il concetto di costruzione esistente postula la possibilità di individuare la costruzione con una propria identità strutturale in modo da poterla tenere presente nella realtà materiale e specifica come entità urbanistico edilizia, tale da non comportare una trasformazione del territorio con una nuova costruzione.
I ruderi non hanno una entità urbanistico edilizia, o, per meglio dire, hanno perso una connotazione urbanistico edilizia, in termini sia strutturali che funzionali.
Ne deriva che la ricostituzione è un intervento, nei fatti, classificabile come nuova costruzione per il quale occorre una autorizzazione definita permesso di costruire, visto che interviene a modificare l’assetto del territorio con un manufatto che diventa abitabile mentre, prima, non era classificabile in alcun modo.
Si può, dunque, concordare con la obiezione, contenuta nel ricorso, di una carente istruttoria, che non ha considerato, dalle foto esistenti, che non vi fosse un edificio esistente (non in termini di abitabilità ma in senso urbanistico) ed ha ammesso una ristrutturazione; una volta contestata la classificazione dall’organo deputato al controllo l’ente pubblico ha annullato la propria decisione.
Ma il percorso di annullamento di ufficio – così come è stato definito dalla ricordata legge 241/1990 – prevede che la pubblica amministrazione valuti, prima dell’annullamento, quale sia l’interesse pubblico allo stesso, che sia trascorso un termine ragionevole di tempo che non abbia suscitato, pertanto, un affidamento sullo stato legittimo delle cose e che vi sia un bilanciamento tra l’interesse del privato a conservare il provvedimento e quello pubblico ad annullarlo.
L’Amministrazione, nel caso considerato, ha operato un annullamento prescindendo dall’interesse pubblico sottostante, che non è stato menzionato, spiegato o motivato.
Non è sufficiente, dicono i giudici, seguendo un costante, recente, orientamento giurisprudenziale, il ripristino della legalità violata per giustificare un annullamento.
Anche nel caso in cui si tratti di un atto dovuto (l’annullamento, perché voluto dalla legge come naturale conseguenza di una violazione di legge) lo stesso non solo va motivato (articolo 3 della legge 241/1990) ma va, soprattutto, giustificato nella esposizione di un interesse pubblico reale e concreto all’annullamento.
Si tratta di una apparente antitesi tra la prima parte della legge 241/90 e la seconda; infatti non a caso si dice che la stessa abbia due anime; la prima è formale, e vuole la motivazione per ogni atto. La seconda, sostanziale, pretende che si valutino gli interessi in gioco, quelli concreti, diversi in ogni caso di specie (articolo 21-nonies della medesima legge).
L’apprezzamento concreto dell’interesse – dicono i giudici amministrativi del T.A.R. nella parte motiva della sentenza in commento – va condotto sulla specifica situazione creatasi in seguito al rilascio di un atto amministrativo.
L’annullamento di ufficio di un atto non può prescindere dalla valutazione di questo interesse concreto, del privato, che si è creato nel frattempo, dal momento della emissione dell’atto stesso fino alla valutazione del vizio che lo inficia, per cui se l’interesse ad annullare, oltre al ripristino della legalità violata, non sufficiente in sé, come si è già sottolineato, non è rilevante, non si può procedere ad un annullamento di un atto viziato.
Nel caso considerato l’intervento amministrativo di controllo, e il conseguente annullamento del primo atto di rilascio di concessione edilizia, interviene dopo un lasso di tempo non breve, per cui assume una maggiore importanza la motivazione dell’interesse pubblico che conduce a modificare una situazione che ha ingenerato, nel privato, un ragionevole affidamento sulla sua legittimità.
Si potrebbe facilmente opinare che, in tale modo, si rischia di trattare in maniera diversa dei casi identici, creando un eccesso di potere, quando ci si rende conto, in sede di controllo, di aver rilasciato un atto amministrativo viziato e si intervenga tempestivamente, piuttosto che con grande ritardo.
In questo caso il fatto che non vi sia già una situazione consolidata che possa provocare un legittimo affidamento sulla sua correttezza gioca a favore della possibilità di annullare l’atto viziato. Nel caso in cui la p.a. non intervenga se non con grande ritardo è meno facile giustificare e motivare l’interesse pubblico a ripristinare lo stato legittimo, dato che i giudici amministrativi italiani hanno concordemente stabilito che il ripristino della legalità violata non basta.
In questo caso prevale l’anima sostanziale della legge 241/1990 e si aprono scenari diversi dal passato; senza contare il risvolto che potrebbe avere una tale visione sul funzionario poco solerte che lascia andare sugli annullamenti, sempre forieri di ricorsi e di problemi conseguenti.
Inoltre va sottolineato anche il fatto che le disposizioni edilizie sono, per lo più vincolanti nel senso che l’azione amministrativa, una volta accertato l’abuso, non è libera nelle scelte da operare.
Per cui vi potrebbe anche essere una situazione di questo tipo: accertato l’abuso, atto sempre eseguibile perché il potere di contestare gli abusi e di punirli non si esaurisce mai, si comminano le sanzioni; tuttavia gli atti amministrativi da cui discende l’abuso non è annullabile se è trascorso molto tempo e si è creata una presunta convinzione di legittimità del fatto.
Ma allora è vero che non occorre la pregiudiziale amministrativa per accertare un comportamento in violazione della norma; nel caso considerato il comportamento in violazione è stato accertato e vi è un abuso che deve essere sanzionato; non è possibile, tuttavia, annullare l’atto se non si definisce la motivazione dell’interesse pubblico a farlo, visto che il rispetto formale della norma non è sufficiente.
Vedremo gli sviluppi sul campo applicativo.
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(1) È utile ricordare che in una zona di vincolo paesaggistico il nulla osta alla costruzione è un atto necessario e presupposto di ogni titolo edilizio. Si veda il Codice Urbani approvato con d.lgs. 42/2004 agli articoli 136 e seguenti (in particolare gli articoli 146 e 159).
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