1. Introduzione
La materia è spessa: negarlo sarebbe inutile oltre che ridicolo. Lo è soprattutto in ragione dell’uso che è stato fatto della normativa. Specie di quella che ha consentito il disinvolto conferimento di incarichi di funzioni dirigenziali a personale interno all’ente locale. Ossia a dipendenti già stabilmente assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Trasformati in dirigenti perché pósti in aspettativa con diritto alla conservazione del posto originario.
Queste sono le modalità con cui molte amministrazioni locali hanno convenuto che fosse possibile creare “dirigenti per decreto”. Davvero un bel modo per realizzare forme di accesso all’impiego pubblico in violazione dell’obbligo di procedervi “salvi i casi previsti dalla legge”. Ossia nel rispetto di un sistema di deroghe all’accesso dall’esterno che l’art. 97, comma 3, Cost. esige che rinvenga il proprio titolo nella legge e non già in fantasiosi atti amministrativi e/o iure privatorum dei capi dell’amministrazione.
Sulla complessa vicenda è bene intendersi da súbito. Perché essa grida allo scandalo ed evoca lo sconcerto piú cupo. I termini impiegati non devono far sorridere. Già, perché la vicenda or ora tratteggiata ha segnato e continua a segnare una delle pagine piú sconcertanti nella diuturnità dell’azione della pubblica amministrazione.
Qui di séguito vediamo quali sono i tratti salienti della vicenda.
2. Dirigenti a tempo determinato e limitazioni al conferimento degli incarichi
Il grido di dolore ha acutizzato i proprî tratti sonori solo all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 40 del d.lgs. 27.10.2009, n. 150. Ossia della norma che ha profondamente innovato il testo dell’art. 19, comma 6, del d.lgs. 30.3.2001, n. 165. Fra l’altro contingentando il numero dei dirigenti a tempo determinato.
Della vicenda ci siamo diffusamente occupati nel nostro ultimo intervento sulle pagine di questa Gazzetta, nelle quali abbiamo investigato i rapporti fra l’art. 19, commi 6, 6-bis e 6-ter, del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 nel testo modificato dall’art. 40 del d.lgs. 27.10.2009, n. 150 e l’art. 110, comma 1, del d.lgs. 18.8.2000, n. 267.
Lá la nostra conclusione non poteva essere che scontata: “ai comuni ed alle province non è preclusa la possibilità di stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato per il reclutamento di dirigenti ai sensi dell’art. 110, comma 1, del d.lgs. 18/8/2000 n. 267”. Qui il limite alla stipulazione lecita e legittima di tali contratti si attesta al “10 per cento della dotazione organica dei dirigenti”. Il tutto con l’avvertimento che esso investe tutte le possibili forme di reclutamento a tempo determinato. E quindi, in primo luogo, le procedure concorsuali vere e proprie che consentono il reclutamento dall’esterno di professionalità non altrimenti rinvenibili nel contingente del personale dipendente dalla singola pubblica amministrazione.
Ovvio che il limite riguardi anche e soprattutto quella forma di reclutamento monstre previsto dalla contrattazione collettiva del comparto enti locali. Ossia il conferimento diretto di funzioni dirigenziali a dipendenti a tempo indeterminato inquadrati nella categoria D, collocati in aspettativa con diritto alla conservazione del posto di lavoro.
La sopravvivenza di una tale possibilità deve essere attentamente vagliata alla luce di una lettura costituzionalmente orientata. Non sottacendo fin d’ora che il conferimento di funzioni a professionalità della medesima amministrazione locale stride con la nuova formulazione dell’art. 19, comma 6, del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 nel testo modificato dal d.lgs. 27.10.2009, n. 150. E non senza osservare che la nuova assunzione all’impiego avviene in deroga al principio del pubblico concorso e che l’art. 97, comma 3, Cost. ammette un tale discostamento solo nelle ipotesi previste dalla legge.
A ciò si aggiunge una considerazione dirimente: il conferimento di un incarico dirigenziale con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato concretizza sempre un’assunzione all’impiego. La quale, proprio perché tale, deve essere sempre vagliata alla luce del principio del pubblico concorso previsto come forma ordinaria di accesso all’impiego ex art. 97, comma 3 Cost. Il quale è espressione del superiore principio di buon andamento dell’azione della pubblica amministrazione ex art. 97, comma 1, della medesima norma.
Ed ora il testo incriminato della disposizione della contrattazione collettiva.
Della vicenda si occupa l’art. 13 del C.c.n.l. – comparto dirigenza 22.2.2006. E lo fa in maniera subdola e sorniona. Ossia dando per scontata l’ammissibilità dell’istituto solo perché previsto dalla direttiva del comitato di settore precedentemente diramata.
Eccone il testo, rubricato “effetti degli accertamenti negativi”. Il quale introduce l’art. 23-bis dopo l’art. 23 del C.c.n.l. 10.4.1996: “1. Gli enti disciplinano gli effetti degli accertamenti negativi di cui all’art. 23 del C.c.n.l. del 10.4.1996, come sostituito dall’art. 14 del C.c.n.l. del 23.12.1999, il relativo procedimento e gli strumenti di tutela, ivi compresi la previa contestazione e il contraddittorio, individuando le specifiche misure nell’ambito delle seguenti ipotesi, in relazione alla gravità dell’accertamento: a) riassegnazione alle funzioni della categoria di provenienza, per il personale interno al quale sia stato eventualmente conferito, con contratto a termine, un incarico dirigenziale semprechè detto conferimento sia consentito dalla normativa vigente nell’ente”.
Come si può agevolmente constatare, disciplinando le conseguenze di un fatto negativo, la norma riconosce implicitamente che l’ente locale possa conferire direttamente un incarico di funzioni dirigenziali a proprio personale interno, evidentemente collocato in aspettativa senza assegni per tutta la sua durata.
La prassi invalsa in applicazione dell’art. 110, comma 1, del d.lgs. 18.8.2000, n. 267 ha sempre dato per contato che ciò fosse possibile. Con la bella conseguenza della proliferazione di incarichi di funzioni dirigenziali a personale interno. Fino all’aberrante conseguenza di promuovere sul campo tutti i titolari di posizione organizzativa dell’ente locale per trasformarli dirigenti a tempo determinato. Con la bella conseguenza di pagarli di piú per svolgere le medesime funzioni prima assolte in qualità di apicali unici d’area ai sensi del combinato disposto degli artt. 107 e 109, comma 2, del d.lgs. 18.8.2000, n. 267 e 8, 9, 10 e 11 del C.c.n.l. 31.3.1999.
Ecco un bell’esempio di efficacia demiurgica e nomopoietica della fantasia giuridico-amministrativa applicata alla trasformazione dello status. È evidente che tale prassi non fosse supportata dal benché minimo puntello legislativo e che fosse un esempio conclamato di danno erariale risarcibile. Ma qui pressoché tutti hanno fatto finta di niente. Con la piena consapevolezza, peraltro, che creare dirigenti “per decreto” fosse un vero e proprio abominio che gridava vendetta oltre che restituzione del tantundem.
Qui ci piace ribadire ancóra che il “dirigente per decreto” è attore di un vero e proprio accesso all’impiego, per il quale vale quanto prevede l’art. 97, comma 3 Cost. Ossia la norma per cui “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvi i casi previsti dalla legge”. Cosí come pure siamo ben lieti di rammentare che per costante giurisprudenza della Corte costituzionale – seguita dalle massime magistrature nelle loro composizioni piú autorevoli – è accesso all’impiego non solo la prima assunzione, ma anche qualsiasi forma di novazione oggettiva del rapporto di lavoro. Il che si verifica proprio nel caso dei “dirigenti per decreto”.
Ora, non ci sovviene che la privatizzazione (rectius: la depubblicizzazione) del rapporto di pubblico impiego abbia determinato forme di equivalenza fra legge ed atto avente forza di legge e contrattazione collettiva di lavoro. Col bel risultato che una deroga all’accesso dall’esterno prevista in forma generalizzata dalla contrattazione collettiva nazionale di comparto integra una flagrante violazione dell’art. 97, comma 3, e dell’art. 3 Cost.
Ecco almeno una buona ragione per mandare definitivamente in soffitta i “dirigenti per decreto”. Essi devono essere immediatamente estromessi dalla titolarità del loro incarico di funzioni dirigenziali e ricondotti al loro impiego naturale: quello di dipendenti delle categorie professionali per i quali hanno stipulato contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Certo è che il nuovo testo dell’art. 19, comma 6, del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 corrobora la testi di cui ci facciamo vessiliferi. Ed infatti, cosa può significare che “tali incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell`amministrazione […]. Per il periodo di durata dell`incarico, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in aspettativa senza assegni, con riconoscimento dell`anzianità di servizio” se non che è la norma non supporta piú incarichi di funzioni dirigenziali a personale appartenente all’area delle categorie professionali attualmente dipendente dall’amministrazione conferente?
3. Annotazioni conclusive
Un deciso basta agli incarichi dirigenziali per decreto, che altri ha denominato “dirigenti fai da te”. Qui ritenere che “chi fa per sé fa per tre” è chiaramente sbagliato. Opinare il contrario significa cadere in forme di autocompiacimento. La qual cosa non conviene certo ad un pensiero adulto e giuridicamente evoluto.
Ed ora la conclusione. I dirigenti pubblici devono essere reclutati mediate concorso nel pieno rispetto dell’art. 97, comma 3, Cost. Con l’avvertenza che nessuna deroga all’accesso dall’esterno può essere ammessa se non deriva da una atto di legge o avente forza di legge sorretto da contenuti ragionevoli e quindi di diretta derivazione dall’art. 3 Cost.
Alla contrattazione collettiva di lavoro non è certo propria la funzione di precostituire forme di aggiramento del divieto legislativo. Non senza osservare che se anche un tale modo di procedere sfugge alle censure di incostituzionalità, ciò odora di trucco di bassa cucina. La cui cura ben può essere costituita dall’attivazione di processi contabili per risarcimento del pubblico erario.
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