Il Sole 24 ORE Guida al Pubblico impiego, editoriale, n. 12
Il 2010 avrebbe dovuto essere l’anno del cambiamento. È stato invece un anno interlocutorio, in cui le riforme epocali dell’anno precedente, più che essere confermate e rafforzate, sono state messe in discussione.Il 2009 si era chiuso con il decreto legislativo n. 150, in vigore dal 15 novembre 2009, attuativo della legge n. 15/2009 che delegava il Governo ad adottare uno o più decreti per la riforma del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, e con il decreto
legislativo n. 198/2009, in vigore dal 15 gennaio 2010, che introduceva in Italia la c.d. class action nei confronti della pubblica amministrazione per violazione di standard qualitativi ed economici.L’obiettivo del Governo era chiaro: la macchina organizzativa pubblica andava riformata puntando su meccanismi aziendalistici, valorizzazione del merito attraverso il meccanismo della valutazione delle performance sia da parte dei dirigenti sia da parte dei cittadini/utenti, premiazione dei migliori attraverso una distribuzione degli incentivi non più “a pioggia”, come accaduto negli anni precedenti per non scontentare nessuno, ma fortemente legata ai risultati conseguiti, non solo dal singolo, ma anche dall’organizzazione nel suo complesso. Una scelta quest’ultima, molto positiva anche sotto il profilo della coesione interna all’unità organizzativa, che la spinta competitiva legata alla valutazione delle performance rischiava di minare.
Rimettere in moto la macchina competitiva in un settore, come quello dell’impiego pubblico, in cui il basso livello di conflittualità è da sempre stato privilegiato rispetto ad un’organizzazione più dinamica era una scommessa non da poco. Scommessa che sarebbe stata vinta o persa, come molti dei tentativi di riforma che l’hanno preceduta, sul tavolo del passaggio alla fase attuativa: la resistenza all’innovazione è una trappola difficile da evitare, più diffusa di quanto si creda anche tra chi si proclama a favore del cambiamento e poi, nel concreto, ritiene meno rischioso difendere lo “status quo”.
Proprio per questo ci si sarebbe aspettati nel corso del 2010 un rafforzamento dei principi annunciati, per non perdere l’ennesima occasione per un vero cambiamento di rotta.
Non è stato così. Il primo colpo alla Riforma Brunetta è arrivato dalla Manovra finanziaria estiva.
Successivamente, il Governo ha perso, con il Collegato lavoro, l’occasione di completare il disegno riformatore sul pubblico impiego.
Inizialmente, il disegno di legge della Manovra d’estate prevedeva addirittura il rinvio tout court dell’attuazione della Brunetta. Successivamente, il rinvio della Riforma è stato eliminato, ma gli interventi di insieme sul lavoro pubblico contenuti nel testo approvato hanno posto più di un freno alla sua attuazione. Primo fra tutti il blocco degli stipendi, previsto dall’art. 9 che dispone che il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti e dirigenti, compreso il trattamento accessorio, non potrà superare, nel triennio 2011-2013 il trattamento in godimento nel 2010.
In sede di conversione del decreto legge la norma blocca-stipendi è stata modificata, con l’introduzione di alcune limitazioni che sembrano ricondurre al blocco solo il trattamento economico fondamentale e le indennità a carattere fisso e ricorrente. L’emendamento sembrerebbe quindi escludere dal blocco i premi legati alla valutazione delle performance. Ma un chiarimento sul punto non c’è mai stato.
È chiara invece l’oscillazione del Governo tra la necessità di intervenire sulla spesa pubblica e quella di individuare nuovi strumenti per valorizzare il merito all’interno della macchina pubblica al fine di aumentarne l’efficienza e la produttività. Certamente, la spesa per il personale è tra quelle che incide maggiormente sui bilanci pubblici. Questa circostanza fa sì che in sede di manovra finanziaria siano molti gli interventi volti a ridurre e contenere la relativa spesa, operando sia sulle dinamiche retributive, sia sulle dotazioni organiche sia, infine, sulle dinamiche occupazionali.
Ma il punto è proprio questo. La pubblica amministrazione e i suoi dipendenti possono essere la chiave di volta per un cambio di passo, per ammodernare il paese migliorando i servizi sia verso i singoli cittadini che verso le imprese, riducendo il peso e il costo della burocrazia e giocando un ruolo di volano dell’innovazione anche tecnologica. Ma perché questo si possa realizzare non si può intervenire con norme ghigliottina che tagliano al buio. I tagli indiscriminati producono gli stessi effetti dei premi indifferenziati: depotenziare le risorse migliori.
In un momento di crisi come quello che stiamo attraversando è sacrosanto intervenire sul controllo della spesa. Ne va del futuro del paese. Ma i momenti di crisi, come ormai sentiamo ripetere da più parti, possono essere l’occasione per risolvere gli antichi mali e puntare sul nuovo. Nel momento in cui scriviamo, gli enti locali sono alle prese con l’approvazione dei nuovi regolamenti per rendere operativo l’incardinamento della valutazione nel sistema organizzativo dell’ente stesso.
Molti sono in ritardo, segno che le oscillazioni del Legislatore nei mesi precedenti hanno avuto più di un contraccolpo. Ma è anche segno che l’attuazione della Riforma sta andando avanti. Che si sta chiedendo ai dipendenti pubblici di fare di più, di mantenere lo stesso livello di servizi, ma con meno risorse, sia organizzative che individuali (si pensi al comma 21 dell’art. 9 per cui le progressioni di carriera nel triennio 2011-2013 hanno effetto solo ai fini giuridici, ma non economici).
E allora è questo il nodo da sciogliere, sul quale si apre l’attesa del 2011: i dipendenti pubblici sono un problema oppure possono essere la soluzione del problema?
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