L. Oliveri (La Settimana degli Enti Locali 2/3/2010)Maggioli Editore
È ancora acceso il dibattito sul permanere o meno, negli enti locali, della vigenza dell’articolo 110, commi 1 e 2, del d.lgs. 267/2000 per l’assunzione di dirigenti a contratto. Restano, infatti, ancora molto presidiate le posizioni interpretative, secondo le quali nonostante la riforma operata dalla combinazione tra legge 15/2009 e d.lgs. 150/2009 sarebbe ancora possibile incaricare dirigenti a contratto per via fiduciaria e con pochi limiti, come fin qui consentito dall’ordinamento locale.
Si tratta, tuttavia, di “resistenze” oppositive al dipanarsi della piena efficacia di una riforma che, abbinata anche alle disposizioni contenute nell’articolo 76, comma 6, del d.l. 112/2008, convertito in legge 133/2008, è andata, al contrario, verso il chiaro superamento di una, tuttavia mai esistita se non nella prassi, “autonomia” nell’attribuzione degli incarichi dirigenziali.
Da sempre, in realtà, si assiste a un chiaro travisamento della disciplina degli incarichi a contratto dei dirigenti. Infatti, si è ritenuto, commettendo un grave errore, che l’incarico fosse al centro di tale istituto. In parole più semplici, è apparso a molti che si fosse in presenza di una disciplina speciale finalizzata alla possibilità di acquisire i dirigenti al di fuori dei ruoli organici e persino senza selezione concorsuale, puntando sul potere del sindaco o del presidente della provincia di attribuire appunto “l’incarico dirigenziale” a un soggetto di sua fiducia, senza aver alcun riguardo alla situazione sostanziale.
Nella realtà, l’articolo 110, commi 1 e 2, del d.lgs. 267/2000, come l’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001 non si limitano a disciplinare un potere di “incaricare” qualcuno come dirigenti. Trattano, e non potrebbe essere altrimenti, di speciali modalità di reclutamento della dirigenza, consentendo all’organo di governo di costituire contratti di lavoro subordinato di qualifica dirigenziale a tempo determinato. Tutto qui.
L’incarico, ovviamente, non è autonomo e non cammina da solo. La rubrica della norma è stata speciosamente utilizzata per intenderla come un potere unilaterale di attribuire un incarico di funzioni, senza agire, dunque, sul rapporto di lavoro. Ma è del tutto evidente che l’incarico dirigenziale a contratto non è autonomo: logicamente esso non può che essere preceduto dalla stipulazione del contratto di lavoro, cui consegue l’assegnazione dell’incarico.
Pertanto, l’articolo 110, commi 1 e 2, è semplicemente la norma che autorizza(va in parte) ad assumere dirigenti con contratti a tempo determinato.
La concezione, invece, della sussistenza di un potere unilaterale e amministrativo dei vertici monocratici locali di “creare” i dirigenti limitandosi ad attribuire l’incarico, ha messo in secondo piano l’aspetto fondamentale, cioè la costituzione di un rapporto di lavoro. Ed è stata alla base della teoria, maggioritaria, secondo la quale la norma consentirebbe (consentiva) di assumere senza effettuare prove concorsuali e sulla base di un semplice rapporto fiduciario.
La riforma Brunetta orienta certamente la normativa e l’interpretazione verso una direzione totalmente opposta.
Analizzando il complesso delle norme intervenute sul tema, si evidenzia come sia, nella sostanza, estremamente difficilmente continuare a perseguire legittimamente la strada – troppo frequentata sin qui – di incarichi dirigenziali a contratto assegnati per via fiduciaria, molto spesso anche a soggetti interni, a causa dell’improvvida novellazione apportata all’articolo 19, comma 6, dall’articolo 14-sexies, comma 6, del d.l. 115/2005, convertito in legge 168/2005.
Verifica della spesa. Le assunzioni dei dirigenti a contratto rientrano pienamente nelle spese di personale come confermato dall’articolo 76, comma 1, del d.l. 112/2008, convertito in legge 133/2008, che ha novellato l’articolo 1, comma 557, della legge 296/2006.
Dunque, gli enti prima di immaginare di assumere a contratto un dirigente (nel prosieguo non parleremo di incaricare, ma utilizzeremo il corretto riferimento alla costituzione di un rapporto di lavoro) debbono verificare la sussistenza della possibilità giuridica e finanziaria.
Pertanto, non possono procedere alle assunzioni gli enti che l’anno precedente non abbiano rispettato il patto di stabilità o che abbiano un rapporto tra spese di personale e spese correnti uguale o superiore al 50%.
Programmazione delle assunzioni. Le assunzioni a tempo determinato non fanno, generalmente, parte della programmazione delle assunzioni. Infatti, essa ha lo scopo di determinare in che tempi procedere alla copertura dei posti disponibili della dotazione organica, selezionando quali qualifiche e profili. Coprire posti della dotazione organica significa effettuare assunzioni in ruolo. Pertanto, oggetto della programmazione sono le assunzioni a tempo indeterminato.
La connessione tra copertura della dotazione organica e programmazione triennale delle assunzioni è prevista dall’articolo 6, commi 1 e 4-bis, del d.lgs. 165/2001. Ai sensi dell’articolo 39 della legge 449/1997 “Al fine di assicurare le esigenze di funzionalità e di ottimizzare le risorse per il migliore funzionamento dei servizi compatibilmente con le disponibilità finanziarie e di bilancio, gli organi di vertice delle amministrazioni pubbliche sono tenuti alla programmazione triennale del fabbisogno di personale, comprensivo delle unità di cui alla legge 2 aprile 1968, n. 482”. L’articolo 91 del d.lgs. 267/2000 conferma gli organi di vertice delle amministrazioni locali sono tenuti alla programmazione triennale del fabbisogno di personale, comprensivo delle unità di cui alla legge 12.3.1999, n. 68, finalizzata alla riduzione programmata delle spese del personale, adeguandosi ai principi di riduzione complessiva della spesa di personale.
Molto spesso gli enti effettuano anche la programmazione delle assunzioni flessibili, che, essendo fuori ruolo e non poste a coprire la dotazione organica, si rivela inutile. È un errore solo veniale, derivante anche dalla prassi di pianificare insieme spesa di personale e assunzioni, anche se i due elementi sono diversi. La programmazione della spesa, infatti, contempla tutte le possibili forme di acquisizione di lavoro, previste dall’articolo 1, comma 557, della legge 296/2006, mentre la programmazione delle assunzioni concerne, come ripetuto, solo la costituzione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Tuttavia, l’assunzione di dirigenti a contratto pare possa e debba costituire oggetto della programmazione. In particolare, se essa sia volta alla copertura di posti vacanti della dotazione organica, come consente il combinato disposto degli articoli 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001 e 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000. Infatti, a differenza delle altre qualifiche, la dirigenza è acquisibile per sua natura stessa – sia pure con i rilevanti limiti oggetto del presente lavoro – mediante rapporti di lavoro a tempo determinato.
In altre parole, le previsioni contenute negli articoli 19, comma 6, e 110, commi 1 e 2, costituiscono certamente norme speciali rispetto alle previsioni contenute nell’articolo 36, commi 1 e 2, del d.lgs. 165/2001. Come è noto, ai sensi del comma 1 citato “per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall`articolo 35”. Il primo periodo del comma 2, simmetricamente, prevede che “per rispondere a esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell`impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti”.
Nel caso degli incarichi a contratto esistono, come visto prima, disposizioni di legge che consentono di assumere dirigenti a tempo determinato al di fuori delle esigenze temporanee ed eccezionali richieste, in generale, dall’ordinamento.
Questa circostanza, tuttavia, non va considerata assolutamente come una sorta di autorizzazione generale ad assumere dirigenti a contratto, come spesso erroneamente è stato inteso – e ancora oggi si vorrebbe interpretare – l’articolo 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000. Al contrario, proprio la deroga alla normativa speciale conferma come il ricorso agli incarichi dirigenziali a contratto andrebbe contenuto al rispetto estremamente rigoroso delle disposizioni normative previste.
Tornando al problema della programmazione, poiché comunque sussistono limiti percentuali alla copertura della dotazione organica dei dirigenti, la programmazione si rivela ancor più necessaria: è in questa fase, infatti, che l’ente deve stabilire se ricorrano o meno i presupposti per coprire parte della dotazione con dirigenti a contratto.
È utile ricordare che la mancanza della programmazione comporta un ulteriore divieto assoluto ad assumere, come prevede l’articolo 6, ultimo comma, del d.lgs. 165/2001.
Percentuale delle assunzioni a contratto. La questione delle percentuali poste a limitare l’assunzione di dirigenti non di ruolo è una delle più delicate.
L’articolo 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000, a ben vedere, non prevede alcuna limitazione percentuale all’assunzione di dirigenti a contratto. Tanto è vero che vi sono non pochi enti locali che coprono i posti dirigenziali esclusivamente con contratti a tempo determinato.
La norma è un’evidente forzatura. Essa si è sempre posta in chiaro contrasto con la disciplina generale dell’organizzazione pubblica e del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, contenuta nell’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001, il quale, invece, ha sempre consentito gli incarichi a contratto solo entro limitate percentuali della dotazione organica dirigenziale.
La dicotomia, tuttavia, appare appianata dalla riforma Brunetta. Non tanto e non solo per il dato letterale, pur rilevante di per sé, del nuovo comma 6-ter dell’articolo 19 del d.lgs. 165/2001, ai sensi del quale le disposizioni del comma 6 si applicano a tutte le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, sempre del d.lgs. 165/2001 e, dunque, anche agli enti locali. E’ la prima volta che nell’ordinamento vi è la chiara e consapevole, da parte del legislatore, manifestazione della volontà di estendere agli enti locali il campo di applicazione dell’articolo 19, comma 6. Nel passato si era sempre sostenuto, con non poche ragioni, la impermeabilità dell’ordinamento locale a tale ultima norma, vista la specialità dell’articolo 110 del t.u.e.l.
Occorre, allora, capire se tale specialità risulti venuta meno, per effetto della novellazione all’articolo 19 del d.lgs. 165/2001, apportata dal d.lgs. 150/2009. L’Anci osserva che l’articolo 110, commi 1 e 2, non risulta espressamente abolito. Tale constatazione non costituisce, tuttavia, ragione sufficiente per considerare ancora vigente la regola speciale prevista per l’ordinamento locale. Ma, al contempo, la sola interpretazione letterale dell’articolo 19, comma 6-ter, a sua volta non appare argomento sufficiente per dimostrare il superamento definitivo dell’articolo 110, comma 1.
In ogni caso, si deve necessariamente concludere per l’abolizione implicita della norma da ultimo citata, ma sulla base di un’interpretazione sistematica, che congiunga la novellazione dell’articolo 19, comma 6, con le previsioni contenute nella legge 15/2009 e la giurisprudenza costituzionale.
La legge delega da cui è scaturito il d.lgs. 150/2009, all’articolo 6, comma 1, stabilisce: “L’esercizio della delega nella materia di cui al presente articolo è finalizzato a modificare la disciplina della dirigenza pubblica, al fine di conseguire la migliore organizzazione del lavoro e di assicurare il progressivo miglioramento della qualità delle prestazioni erogate al pubblico, utilizzando anche i criteri di gestione e di valutazione del settore privato, al fine di realizzare adeguati livelli di produttività del lavoro pubblico e di favorire il riconoscimento di meriti e demeriti, e al fine di rafforzare il principio di distinzione tra le funzioni di indirizzo e controllo spettanti agli organi di governo e le funzioni di gestione amministrativa spettanti alla dirigenza, nel rispetto della giurisprudenza costituzionale in materia, regolando il rapporto tra organi di vertice e dirigenti titolari di incarichi apicali in modo da garantire la piena e coerente attuazione dell’indirizzo politico degli organi di governo in ambito amministrativo”.
Intento dichiarato del legislatore, dunque, è garantire l’autonomia della dirigenza. Da ciò scaturiscono inevitabili conseguenze. La prima deriva dal recidere qualsiasi tipo di legame tra incarico dirigenziale e durata del mandato politico-amministrativo. Infatti, è chiaro che se così non fosse il rapporto di lavoro dirigenziale risulterebbe inscindibilmente connesso con la coalizione politica al governo, tanto da porre in essere una quasi totale immedesimazione tra dirigenza e parte politica. Proprio quell’immedesimazione, in effetti, auspicata, cercata, perseguita dalla politica e favorita da un’interpretazione dello spoil system oggettivamente contraria alla Costituzione. Tale contrarietà alla Costituzione, tuttavia, non è più, ormai da tempo, rilevata dalla dottrina. È parte integrante dell’ordinamento, poiché è stata affermata dalla stessa Corte costituzionale. Nella sentenza 103/2007 la Consulta sancisce: “la prevista contrattualizzazione della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione abbia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto stesso (sentenza n. 313 del 1996). Se così fosse, è evidente, infatti, che si verrebbe a instaurare uno stretto legame fiduciario tra le parti, che non consentirebbe ai dirigenti generali di svolgere in modo autonomo e imparziale la propria attività gestoria”. E aggiunge: “il rapporto di ufficio, sempre sul piano strutturale, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, debba essere connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongano che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione. Ciò al fine di consentire che il dirigente generale possa espletare la propria attività – nel corso e nei limiti della durata predeterminata dell’incarico – in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.)”.
Più di recente, la Consulta, confermando un filone ormai consolidato, con la sentenza 34/2010 evidenzia che la connessione tra gli incarichi dirigenziali (di ruolo) e la durata del mandato elettorale lede la Costituzione per almeno tre aspetti. Il primo, è il contrasto col principio di buon andamento, visto che la decadenza automatica degli incarichi dirigenziali pregiudica la continuità dell’azione amministrativa. In secondo luogo, ma non per importanza, viene leso il principio di imparzialità amministrativa: infatti, la stretta connessione tra incarico dirigenziale e mandato politico esclude che le funzioni amministrative di esecuzione dell’indirizzo politico siano affidate a funzionari neutrali, tenuti ad agire al servizio esclusivo della Nazione; al contrario, l’esercizio di dette funzioni risulterebbe assegnato a soggetti cui si finisce per richiedere una specifica appartenenza politica, ovvero un rapporto personale di consentaneità con il titolare dell’organo politico. In terzo luogo, il carattere automatico della decadenza dall’incarico, in occasione del rinnovo dell’organo politico, viola l’articolo 97 della Costituzione sotto due aspetti: perché pregiudica l’applicazione del principio del giusto procedimento, escludendo il diritto del funzionario di intervenire nel corso del procedimento che conduce alla sua rimozione e di conoscere la motivazione di tale decisione; nonché, per lesione dei principi di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa: le revoche, come gli affidamenti, degli incarichi dirigenziali, infatti, debbono essere fondati esclusivamente sulla valutazione oggettiva delle qualità e capacità professionali da essi dimostrate, cosa del tutto estranea a una decadenza automatica degli incarichi, e la conseguente rimozione dei dirigenti dai loro incarichi, così come a una nomina su basi fiduciarie.
La lettura, allora, delle sentenze della Consulta aiuta a chiare il criterio di delega espresso dal legislatore con l’articolo 6, comma 1, della legge 15/2009: il rispetto delle decisioni della giurisprudenza costituzionale implica necessariamente la riconsiderazione dell’assunzione di dirigenti a contratto come ipotesi assolutamente straordinaria. Infatti, la durata a tempo determinato del rapporto di lavoro (non dell’incarico, invece certamente limitato nel tempo) vìola tutte le cautele e garanzie che, al contrario, sono chieste dagli articoli 97 e 98. Dunque, solo in presenza di specialissime e particolari condizioni risulta possibile coprire i posti della dotazione organica dirigenziale con contratti di lavoro a tempo determinato. In particolare, procedendo in modo da non ledere comunque l’autonomia dirigenziale, attraverso un rapporto di stretto legame fiduciario e di appartenenza tra organo di governo e dirigente. Il che avviene in particolare se il dirigente a tempo determinato venga assunto senza concorso e, soprattutto, se “promosso sul campo”, provenendo da ruoli non dirigenziali: è chiaro che in questo caso il rapporto di soggezione tra dirigente e organo che lo nomina risulterebbe inevitabilmente in collisione con l’autonomia della funzione. Autonomia che non è garanzia del “posto” del dirigente, ma di competenza tecnica e imparzialità nell’agire amministrativo nei confronti dei cittadini.
Per questa ragione, intanto è da escludere che l’intera compagine dirigenziale possa essere assunta con contratti a tempo determinato: se così fosse, si andrebbe insanabilmente contro una lettura costituzionalmente rispettosa della disciplina delle assunzioni di dirigenti a tempo determinato, come voluta dalla riforma Brunetta.
Pertanto, l’articolo 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000 deve considerarsi come implicitamente abolito e sostituito in tutto dall’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001. Alla luce di questa interpretazione, assume senso e rilievo quanto previsto nel comma 6-ter del medesimo articolo 19.
Quale percentuale? Acclarato, dunque, che l’articolo 110, comma 1, del t.u.e.l. risulta implicitamente abolito e che, di conseguenza, solo una percentuale di dirigenti può essere assunta a tempo determinato, l’incertezza concerne la determinazione della percentuale.
Come è noto, il comma 6 dell’articolo 19 del d.lgs. 165/2001 consente di coprire con contratti a tempo determinato il 10% della dotazione organica dei dirigenti di prima fascia; tale percentuale scende all’8% per i dirigenti di seconda fascia.
Nelle amministrazioni locali, allora, si pone il problema di quale percentuale prendere in considerazione. Piuttosto diffusa è l’interpretazione “di comodo” secondo la quale, in assenza di una distinzione tra dirigenti in fasce, occorrerebbe sommare le due percentuali; sicché negli enti locali sarebbe del 18%.
Si tratta di un’interpretazione in tutto non condivisibile. Nello Stato il Conto del personale riferito al 2008 ha censito 317 di prima fascia e 2850 dirigenti di seconda fascia. Complessivamente, dunque, potrebbero essere assunti a contratto 32 dirigenti di prima fascia e 228 dirigenti di seconda fascia. Sommando i due risultati, su un totale di 3167 dirigenti (tra prima e seconda fascia) potrebbero essere reclutati a tempo determinato 260 dirigenti, pari all’8,21% complessivamente.
Si dimostra, matematica alla mano, che la somma delle due percentuali risulterebbe una falsa applicazione della norma e una soluzione illegittima. L’incidenza della percentuale di assunzione di dirigenti di prima fascia è bassissima, dato il contenuto numero di tali dirigenti.
La soluzione, allora, è automatica: alla dirigenza locale non può che applicarsi la percentuale dell’8% prevista dal primo periodo dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001, riguardante la dirigenza di seconda fascia. Al limite, considerando l’eccentricità di una misura dell’8%, potrebbe considerarsi opportuno l’arrotondamento e ammettere per gli enti locali una percentuale di incarichi a soggetti non appartenenti ai ruoli del 10%. Occorrerebbe, tuttavia, una disposizione normativa chiara in materia. Il 18%, tuttavia, è chiaramente da escludere del tutto.
Resta il problema dell’individuazione della base di computo della percentuale. L’Anci, nelle sue Linee guida sulla riforma Brunetta, afferma che laddove il numero dei dirigenti risulti eccessivamente esiguo, e il computo si limitasse alla sola dirigenza di ruolo non vi sarebbe possibilità di rendere effettiva la facoltà degli enti locali. Infatti, perché si attivi un dirigente a contratto occorrerebbe la presenza di almeno 10 dirigenti con la percentuale del 10% e di 5, se la percentuale fosse quella, impossibile, del 18%. La cosa, di per sé, non costituirebbe un problema, preso atto della conclamata volontà del legislatore di ridurre il numero degli incarichi dirigenziali a contratto. Si potrebbe, tuttavia, consentire agli enti locali di attivare almeno un incarico dirigenziale a contratto, salvaguardando per questa parte il contenuto dell’articolo 110, comma 2, del d.lgs 267/2000.
Risulta, comunque, chiaro che applicando la percentuale dell’8%, che appare quella più corretta stando alla lettera della norma, occorre che gli enti locali abbiano una dotazione organica di almeno 7 dirigenti, per poter assumere un dirigente a contratto.
Abolizione dell’articolo 110, comma 2. Come visto prima, l’articolo 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000 è da considerare abolito e sostituito dall’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001.
Analogamente, anche il comma 2 deve considerarsi incompatibile con la riforma e implicitamente abolito. La dirigenza a contratto extra dotazione organica è stata, fino alla riforma Brunetta, una peculiarità dell’ordinamento locale. Infatti, l’articolo 110 del d.lgs. 267/2000, pur avendo notevoli analogie con l’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001, se ne distacca essenzialmente per due motivi. In primo luogo, perché, come visto prima, non prevede alcuna limitazione percentuale sulla dotazione organica all’assunzione di dirigenti a contratto a tempo determinato, nell`ambito dei ruoli. In secondo luogo, proprio perché contempla la possibilità di assumere dirigenti a contratto andando anche oltre i limiti della dotazione organica, nel 5% della dotazione della dirigenza e dei funzionari.
Non sarebbe corretto, per gli enti locali, rivendicare la propria autonomia normativa e ricondurre la perdurante legittimità di assumere dirigenti extra dotazione a eventuali disposizioni statutarie o regolamentari. Infatti, il decreto Brunetta estende direttamente a comuni e province il proprio campo di applicazione. Ma, se ciò non bastasse, l’articolo 88 del d.lgs. 267/2000 implica la diretta applicazione delle norme generali sul rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni all’ordinamento locale, il quale, per altro, ai sensi dell’articolo 111 del medesimo testo unico deve essere armonizzato con l’ordinamento generale. In più, si deve tenere presente che la riforma introdotta dal decreto Brunetta ha lo scopo, dichiarato dalla legge delega 15/2009, di attuare i principi enunciati dalla Corte costituzionale (sentenze 103/2007, 104/2007 e 161/2008), dai quali emerge una contrarietà a Costituzione di una dirigenza non prevalentemente di ruolo e di natura “fiduciaria” con l’organo di governo. Poiché la norma attua, allora, direttamente regole discendenti dagli articoli 97 e 98 della Costituzione, essa ha portata universale e non può non estendersi anche agli enti locali, i cui statuti e regolamenti non possono evidentemente porsi in contrasto con regole costituzionali, per quanto esplicitate e attuate con norme di legge ordinaria, per altro a ciò legittimata dalla riserva di legge, disposta proprio dall’articolo 97 della Costituzione.
In conclusione, dunque, un’ulteriore forte limitazione alle assunzioni di dirigenti a tempo determinato discende dalla percentuale molto contenuta, che non pare possa andare oltre l’8% finché una disposizione diversa non lo consenta espressamente.
Riduzione tendenziale della dirigenza. In ogni caso, l’assunzione extra dotazione organica non appare comunque compatibile con altri principi chiaramente enunciati dall’ordinamento in più di una disposizione. Acquisire un dirigente al di là della dotazione implica la conseguenza di aggiungere – è ovvio – uno o più dirigenti alla dotazione.
Si è visto prima che predominando, oggi, l’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001 anche sulla disciplina dell’ordinamento locale, l’unica possibilità di acquisire dirigenti con contratto a termine si ha solo per coprire posti della dotazione. Questo elemento, di per sé, dovrebbe essere sufficiente a confermare che assunzioni extra dotazione non sono più possibili.
Ancora una volta, comunque, allargando l’analisi ad altre disposizioni ordinamentali si trova ulteriore conferma dell’eliminazione della possibilità di allargare a piacimento la provvista di dirigenti.
Il primo segnale è contenuto nella legge 15/2009, che all’articolo 6, comma 2, lettera h), ha espresso il seguente criterio di esercizio della delega: “ridefinire i criteri di conferimento, mutamento o revoca degli incarichi dirigenziali, adeguando la relativa disciplina ai princìpi di trasparenza e pubblicità e ai princìpi desumibili anche dalla giurisprudenza costituzionale e delle giurisdizioni superiori, escludendo la conferma dell’incarico dirigenziale ricoperto in caso di mancato raggiungimento dei risultati valutati sulla base dei criteri e degli obiettivi indicati al momento del conferimento dell’incarico, secondo i sistemi di valutazione adottati dall’amministrazione, e ridefinire, altresì, la disciplina relativa al conferimento degli incarichi ai soggetti estranei alla pubblica amministrazione e ai dirigenti non appartenenti ai ruoli, prevedendo comunque la riduzione, rispetto a quanto previsto dalla normativa vigente, delle quote percentuali di dotazione organica entro cui è possibile il conferimento degli incarichi medesimi”.
La rivisitazione, dunque, della disciplina dell’assunzione di dirigenti a tempo determinato è una consapevole volontà del legislatore. Il quale ha anche indicato di voler ridurre le percentuali di assunzione. Nella realtà, il d.lgs. 150/2009 ha solo parzialmente rispettato questi vincolo, perché le percentuali, a ben vedere, sono rimaste le stesse ante riforma. C’è l’unica accortezza di aver fissati col nuovo comma 6-bis dell’articolo 19 il criterio di computo matematico, che ha la funzione di evitare un allargamento oltre misura delle percentuali consentite.
Comunque, l’ordinamento, come si nota, contiene il principio della riduzione dei dirigenti non appartenenti ai ruoli delle pubbliche amministrazioni.
Tale principio, di conseguenza, ha un corollario: nell’organizzazione pubblica la dirigenza deve essere in larghissima prevalenza di ruolo e quella esterna solo un’eccezione straordinaria, da attivare esclusivamente in presenza di particolarissime condizioni. Altro corollario, allora, è che la dirigenza venga reclutata secondo le ordinarie modalità discendenti dall’articolo 97, comma 3, della Costituzione e dall’articolo 28 del d.lgs. 165/2001: mediante concorso per soli esami, allo scopo di acquisire dirigenti a tempo indeterminato, che coprano la dotazione organica.
L’ordinamento, comunque, contiene anche l’accortezza di escludere un ingigantimento delle dotazioni di dirigenti. Le amministrazioni statali hanno dovuto ridurre le dotazioni organiche, comprese quelle dirigenziali, nelle misure necessarie a garantire la riduzione di spesa e il contenimento delle assunzioni previste dall’articolo 66 del d.l. 112/2008, convertito in legge 133/2009. Chiara conseguenza di ciò è la tendenziale riduzione anche della possibilità di assumere dirigenti a contratto, visto che in conseguenza del contenimento delle dotazioni organiche il numero assoluto dei contratti a termine consentito dalle percentuali si riduce in proporzione.
Per le amministrazioni locali esiste una disposizione anche più chiara e netta. Si tratta dell’articolo 76, comma 6, del medesimo d.l. 112/2008, il quale contiene i seguenti criteri di delega al d.P.C.M. cui è assegnato il compito di fissare i parametri di ridefinizione dei limiti alle assunzioni negli enti locali:
È noto che il d.P.C.M. non è stato ancora emanato. Altrettanto noto è che la Sezione Autonomie della Corte dei conti con la delibera 3/2010 ha chiarito, dopo oltre un anno di acceso dibattito dottrinale e di incertezze delle Sezioni regionali di controllo, che l’articolo 76, comma 5, del d.l. 112/2008 non è ancora applicabile in assenza del d.P.C.M. Ma, la delibera evidenzia che sono, però, applicabili quelle parti di norma non necessitanti l’intervento del decreto. Per esempio, è immediatamente operativo il divieto di assunzione nei confronti degli enti il cui rapporto tra spesa di personale e spese correnti sia uguale o superiore al 50%. Sono, dunque, da considerare operanti i principi non connessi alla specificazione di dettaglio che il legislatore ha rimesso al decreto attuativo.
Di conseguenza, i criteri di delega contenuti nel comma 6 dell’articolo 76 sono da considerare operanti come principi, sebbene non attuabili nelle loro linee di concreta applicazione.
Allora, per le amministrazioni locali vale da subito la necessità di ridurre il ricorso ad assunzioni di dirigenti non appartenenti ai ruoli, previsto dalla lettera b) del citato comma 6. E, allo stesso modo, si impone, nel rispetto della successiva lettera c), di non incrementare l’incidenza percentuale delle posizioni dirigenziali in organico rispetto al resto dei dipendenti, in attesa di conoscere i parametri che detterà il d.P.C.M. per procedere addirittura alla riduzione di tale incidenza percentuale.
Qualsiasi assunzione di dirigenti a tempo determinato negli enti locali sulla base delle disposizioni vigenti rischia di rivelarsi illegittima per violazione ai principi di riduzione al ricorso ai dirigenti a contratto (evincibili dalla legge 15/2009 e dall’articolo 76, comma 6, del d.l. 112/2008, convertito in legge 133/2008) e di riduzione del numero assoluto dei dirigenti, rispetto alla dotazione organica complessiva dell’ente, se finalizzata ad aumentare il numero dei dirigenti a contratto e del numero assoluto delle posizioni dirigenziali.
Carenza di professionalità interne. La limitazione della possibilità di avviare l’assunzione di dirigenti a tempo determinato, in ogni caso, non passa solo per i già rilevantissimi vincoli sin qui evidenziati (percentuali contenute e obblighi di riduzione del numero assoluto).
Ancora più efficace appare la novellazione dell’articolo 19, comma 6, che nel terzo periodo prevede: “Tali incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell`Amministrazione”.
La legge, dunque, impone in via esplicita e chiara alle amministrazioni di motivare esplicitamente la decisione di assumere dirigenti a tempo determinato non appartenenti ai ruoli. È la conferma inconfutabile della natura straordinaria ed eccezionale dell’istituto, che non è affatto utilizzabile in via del tutto discrezionale dagli organi di governo, come sin qui si è verificato in applicazione di una prassi oggettivamente contraria alla Costituzione.
La regola generale e ordinaria per coprire i posti della dotazione organica dirigenziale è l’assunzione a tempo indeterminato, mediante concorso pubblico. La copertura dei posti attraverso contratti a tempo determinato è di natura recessiva e soggetta a una specifica motivazione, non essendo sufficiente, allora, la sola programmazione. L’ente deve spiegare perché invece di procedere per le vie ordinarie, intenda avvalersi delle attività di soggetti non di ruolo.
Non solo. La motivazione deve specificamente riferirsi all’assenza nei ruoli dell’amministrazione di particolare e comprovata qualificazione professionale.
Il comma 6 obbliga le amministrazioni, allora, prima di assumere dirigenti a contratto, a verificare se tra i dirigenti di ruolo non esista in modo assoluto la professionalità necessaria per lo svolgimento di determinati incarichi, sì da rendere necessario il ricorso a dirigenti a contratto.
Insomma, si introduce un percorso motivazionale e procedimentale analogo a quello previsto dall’articolo 7, comma 6, del d.lgs. 165/2001 per gli incarichi di collaborazione esterna. Questi, come gli incarichi dirigenziali a contratto, sono un’eccezione al principio dell’autosufficienza delle dotazioni e delle professionalità presenti negli enti. Dunque, l’acquisizione di collaboratori come di dirigenti esterni deve passare necessariamente per la dimostrazione dell’impossibilità assoluta di svolgere le funzioni richieste con l’opera dei dipendenti già in servizio.
Per quanto riguarda i dirigenti a contratto, per altro, non pare sufficiente motivarne il ricorso con l’eccessivo carico di lavoro dei dirigenti di ruolo. Infatti, il comma 6 dell’articolo 19 è estremamente determinato nel connettere la possibilità di avvalersi di dirigenti a contratto solo nel caso di assenza della professionalità. In altre parole, i dirigenti a contratto sono acquisibili esclusivamente per carenze di tipo qualitativo, che non consentano alla dirigenza in servizio di far fronte all’esigenza operativa, anche mediante una riorganizzazione delle funzioni e dei compiti loro assegnati. Laddove, allora, vi siano carenze di tipo quantitativo, cioè posti scoperti della dotazione organica, il sistema legittimo e corretto rimane solo quello della copertura del posto in dotazione organica mediante concorso pubblico. Si ha la conferma ulteriore, dunque, che l’articolo 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000 risulta abrogato implicitamente per incompatibilità con la riforma, che impedisce di coprire i posti della dotazione organica alternativamente con rapporti a tempo indeterminato o determinato, come se fossero scelte equivalenti tra loro. Al contrario, il ricorso ai contratti a tempo determinato è una eccezione da considerare estremamente limitata nei presupposti, nelle condizioni, nelle quantità, nelle motivazioni.
Sicché, laddove la dirigenza in servizio disponga della professionalità necessaria per lo svolgimento di funzioni dirigenziali, non è ammesso il ricorso a dirigenti esterni. Al contrario, la ricognizione della presenza di professionalità potrebbe essere lo spunto per una riorganizzazione delle strutture e la ridefinizione degli incarichi dirigenziali, mediante un accorpamento, tale da attuare i principi visti sopra della tendenziale riduzione dell’incidenza dei dirigenti rispetto al totale della dotazione organica di personale. È evidente che in questo quadro, la valorizzazione delle capacità interne del personale non dotato di qualifica dirigenziale non può passare attraverso l’attribuzione di incarichi dirigenziali nei loro confronti, ma mediante l’accorto utilizzo degli incarichi nell’area delle posizioni organizzative con delega di funzioni dirigenziali ai sensi dell’articolo 17, comma 1-bis, del d.lgs. 165/2001, in attesa dell’attivazione della vice dirigenza.
Scorporo delle funzioni dirigenziali. Le disposizioni e i principi sin qui visti portano a un’ulteriore conclusione: in fase di riorganizzazione delle strutture interne, lo scorporo da un settore (o area o qualunque altro sia il nome che ciascun ente attribuisca alle proprie strutture di vertice) di strutture finalizzato allo scopo di costituire una nuova figura dirigenziale, magari proprio quella da attribuire con assunzione a contratto, appare contrastante col corpus normativo sin qui analizzato.
Lungi dallo scorporare funzioni dirigenziali, gli enti dovrebbero, semmai, agire per accorparle e, comunque, per coprire quelle vacanti mediante:
Solo in via del tutto residuale si potrebbe procedere alle assunzioni a contratto. Naturalmente, la creazione apposita di figure dirigenziali disposta al preciso scopo di causare una “vacanza” nell’organico è un’evidente elusione dell’intera disciplina della dirigenza, come rinveniente dalla riforma.
Per essere più chiari, basta un esempio. Un sindaco ritiene di non poter riporre completa “fiducia” nel dirigente tecnico del comune, incaricato di dirigere l’area comprendente lavori pubblici, edilizia e urbanistica. volendo provvedere a un ridisegno complessivo urbanistico dell’ente. A tale scopo, intenderebbe avvalersi dell’articolo 110 per acquisire a contratto un dirigente di propria fiducia.
La soluzione che sorge immediata e spontanea al problema di come giustificare il ricorso a un dirigente esterno sarebbe, allora, quella di sottrarre all’area diretta dal dirigente di ruolo l’urbanistica, creando, dunque, una nuova struttura organizzativa interna di livello dirigenziale ed evidenziando la carenza d’organico. Il cerchio si chiuderebbe, a questo punto, con l’assunzione a contratto del dirigente “di fiducia”, per la durata del mandato del sindaco.
Risulta evidentissima l’elusione, se non proprio la violazione, di tutte le norme e principi sin qui visti.
In particolare, al di là della violazione dei principi costituzionali che escludono la sussistenza di rapporti fiduciari tra politica e dirigenza, la manovra risulta illegittima:
In particolare, il terzo punto si rivela decisivo. Si è visto che ai sensi dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001, unica norma, in realtà, applicabile alle assunzioni a contratto anche negli enti locali, presupposto motivazionale imprescindibile è la dimostrazione della carenza di professionalità interne. È del tutto chiaro, però, che nell’esempio proposto tale assenza di professionalità risulterebbe del tutto impossibile, visto che fino alla riorganizzazione e allo scorporo, le funzioni dirigenziali che l’ente intenderebbe assegnare a un dirigente a contratto erano state svolte dal dirigente di ruolo. Altrimenti, occorrerebbe fondare la motivazione dell’assenza della professionalità sulla base di valutazioni negative dell’operato del dirigente di ruolo. Ma, in assenza di tale elemento, l’intera manovra sarebbe una plateale violazione alle disposizioni normative.
Incarichi a interni sostanzialmente impossibili. L’insieme del corpus della riforma dimostra ulteriormente la sostanziale impossibilità di attribuire gli incarichi extra ruolo a funzionari interni, privi della qualifica dirigenziale.
Anche se nell’articolo 19, comma 6, novellato è rimasta la teorica possibilità, essa è da considerare in punto di diritto e di fatto sostanzialmente eliminata.
Elemento fondamentale è l’eliminazione totale dall’ordinamento di sistemi di reclutamento interamente riservati ai dipendenti dell’ente che intende assumere. La riforma dell’articolo 52 del d.lgs. 165/2001 esclude nella maniera più totale la possibilità di concorsi interamente riservati. Tale esclusione non può operare solo per le assunzioni a tempo indeterminato, ma per qualsiasi tipo di reclutamento, visto che l’articolo 97 della Costituzione, del quale è attuativo, non consente procedure selettive differenziate a seconda della durata del contratto di lavoro. Tanto più se l’assunzione come dirigente di un dipendente interno configura, come nel caso di specie, una promozione, una sicura verticalizzazione, sia pure a tempo determinato.
Secondo una tesi molto in auge, tuttavia l’assunzione con contratto di dirigente a tempo determinato del dipendente interno si potrebbe sorreggere sulla base del risparmio di spesa: infatti, in questo caso l’ente si assumerebbe non l’onere totale di un nuovo dirigente, ma solo il differenziale tra la posizione dirigenziale e la retribuzione già in godimento del dipendente.
L’osservazione è, tuttavia, inconferente. Si tratterebbe in ogni caso di un’assunzione illegittima, priva di titolo e foriera di responsabilità amministrativa e anche penale, per abuso d’ufficio, scaturente dal beneficio economico che l’interessato trarrebbe dall’impropria “promozione” ottenuta.
Oltre tutto, non si tiene nella dovuta considerazione la circostanza che analoghi strumenti di valorizzazione della competenza interna possono essere realizzate non a costi inferiori, ma a costo zero. Infatti, se l’ente riconosca che al proprio interno sussista una professionalità tale da poter essere assunta come dirigente a contratto, potrebbe ottenere il medesimo fine senza minimamente intaccare la normativa. Basterebbe che il dirigente preposto si avvalesse del potere di assegnare all’interessato la delega delle funzioni dirigenziali, prevista dall’articolo 17, comma 1-bis, del d.lgs. 165/2001. Il che avrebbe, lo si ripete, costi pari a zero e non determinerebbe alcun pericolo di violazione del complesso normativo sin qui analizzato. Si pone, semmai, il problema della remunerazione del funzionario delegato. Ma, questa è questione della quale si dovrebbe occupare una contrattazione collettiva che, invece, sul tema appare piuttosto distratta, come per l’aspetto della vicedirigenza.
Residua per l’incarico a dipendenti interni la sola possibilità di assumerli a contratto, verificati tutti i presupposti di legge, solo se gli interessati (escludendo, ovviamente, che si tratti di magistrati, avvocati dello Stato, professori o ricercatori universitari, nonché dirigenti provenienti dal settore privato) “abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l`accesso alla dirigenza”, come richiesto dall’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001. Non basta, cioè, la situazione di fatto di essere funzionari che operano all’interno dell’ente intenzionato ad assumere un dirigente, per poter essere assunti a contratto. Accanto all’esperienza lavorativa almeno quinquennale, infatti, i funzionari interni debbono possedere una particolare specializzazione professionale desumibile necessariamente da una formazione post universitaria e da pubblicazioni scientifiche. Solo questi ulteriori particolarissimi e qualificanti requisiti soggettivi potrebbero giustificare un’assunzione a tempo determinato, senza una vera e propria selezione concorsuale, di dipendenti interni, privi di qualifica dirigenziale.
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