di Alessandro V. De Silva Vitolo
Al fine di riscontrare una semplice «concessione di beni» e non una «concessione di servizi» è necessario che, nel rapporto sinallagmatico che si intende instaurare, la prestazione di un servizio alla collettività, seppure sussistente, non rivesta carattere prevalente.
Siffatta situazione di non prevalenza è concretamente desumibile da una serie di circostanze, quali, ad esempio, la rilevanza attribuita al fine di lucro, la fissazione o meno di un determinato canone calmierato, da parte dell’Amministrazione e, ancora, l’incidenza della convenzione sulle prestazioni imponibili ai fruitori della struttura e, in termini più ampi, sulle modalità di gestione ed utilizzo di quest’ultima. Così ha affermato il Tar Lazio, Roma, Sezione II bis, con la sentenza del 13 giugno 2017, n. 6985.
Il caso
Nel dicembre del 2012 un Comune della provincia di Roma ha indetto una «gara esplorativa» al fine di pervenire all’aggiudicazione di una concessione afferente la gestione di alcuni locali di un sito rientrante nel patrimonio culturale dello Stato.
A fronte della presentazione di un’unica offerta, il Comune ha ritenuto congrua e vantaggiosa l’idea progettuale (dell’odierno ricorrente) di destinare i suddetti locali a ristorazione per la valorizzazione di prodotti tipici locali, oltre ad un impegno collaborativo con le associazioni locali.
A seguito di varie vicissitudini, di fatto irrilevanti ai fini della presente indagine, il Commissario prefettizio nominato medio tempore, con delibera del maggio 2016, ha provveduto a revocare la deliberazione della Giunta comunale avente ad oggetto l’aggiudicazione della concessione.
Di là dall’analisi dei singoli motivi di ricorso, è importante dare conto del passaggio della sentenza oggetto della presente analisi in cui il Collegio, discorrendo sulle procedure ad evidenza pubblica relative a pubblici lavori, servizi e forniture, ha colto l’occasione per soffermarsi sulla differenza tra le fattispecie di «concessione di beni» e «concessioni di servizi».
Ebbene, il Tar ha ritenuto che, al fine di siffatta differenziazione, il carattere dirimente sia da attribuire alle finalità che, mediante la concessione, l’Amministrazione intende perseguire, così come desumibili - non dalla natura del bene in sé, bensì - dalle prescrizioni imposte in relazione alla gestione di esso dall’Ente concedente.
Precipuamente per configurare una «concessione di beni» è necessario che, nel rapporto sinallagmatico che si intende instaurare, la prestazione di un servizio alla collettività, seppure sussistente, non rivesta carattere prevalente; ciò purtuttavia riconoscendo che la semplice istaurazione di siffatto rapporto con l’Amministrazione – ossia l’affidamento della disponibilità del bene dietro pagamento di un canone – non valga a qualificare di per sé stessa la concessione come «di beni».
Concessione di beni e concessione di servizi
Vale ricordare che le fattispecie cosiddette concessorie possono essere definite come tutte quelle situazioni in cui l’Amministrazione attribuisce a terzi, con il loro consenso, il godimento di utilità relative a beni pubblici (demaniali e patrimoniali indisponibili) oppure la possibilità di esercitare pubblici servizi o di realizzare opere pubbliche o di compiere l’una e l’altra cosa insieme (come ad esempio costruzione dell’opera ed esercizio a cui l’opera è destinata.
In particolare, se da un lato la disciplina della concessione di servizi è stata definita dalla direttiva n. 2004/18/CE come «un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo», dall’altro la concessione di beni risulta essere una fattispecie complessa frutto della dalla convergenza di un atto unilaterale autoritativo, la concessione, e di una convenzione integrativa del suo contenuto, di natura privatistica, vale a dire un rapporto contrattuale bilaterale, fonte di obblighi e diritti reciproci dell’Ente concedente e del privato concessionario.
La giurisprudenza ha più volte chiarito che il beneficiario di una concessione della Pubblica amministrazione assume, in virtù dell’utilità pubblica cui è asservito il bene, il ruolo di sostituto del concedente e, relativamente ai poteri pubblici trasferitigli in forza del provvedimento concessorio, è egli stesso soggetto investito di una pubblica funzione. Di tal chè, l’utilizzatore a titolo particolare di un bene pubblico in forza di un atto concessorio è titolare, nei confronti dei terzi, di un diritto di esclusione dall’utilizzazione dello stesso bene, tutelabile sia con i mezzi e le azioni proprie del diritto comune, che con i poteri di autotutela esecutiva.
Per contro il concessionario, nei confronti della Pubblica amministrazione concedente, è titolare di un interesse legittimo al rispetto delle norme di legge, qualora essa intenda incidere sul rapporto concessorio mediante l’esercizio di poteri autoritativi, ad esempio annullando o revocando la concessione.
Conclusioni
Il Tar Lazio, basandosi sul contenuto degli atti dell’Amministrazione e, in particolare, sull’atto di indirizzo allegato alla deliberazione del Consiglio comunale ha affermato che, nel caso di specie, si trattasse di «concessione di un bene» pubblico.
Siffatta conclusione si è basata sulla circostanza per cui, nonostante nell’atto di indirizzo non vi fosse un esplicito riferimento alla «politica di sviluppo del territorio della valorizzazione turistica ecosostenibile della salvaguardia delle attività produttive della valorizzazione dei prodotti enogastronomici del territorio, di valorizzazione dei beni pubblici», il fine primario perseguito dal Comune mediante la gara esplorativa era da indentificare inequivocabilmente con la volontà di «mettere a reddito» una parte inutilizzata del complesso mobiliare del un sito rientrante nel patrimonio culturale dello Stato, «eliminando così l’impegno per la manutenzione».
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