di Arch. Serena Ciampa
Funzionario Ufficio Tecnico Comune di Pacentro
1.Il modello costituzionale: la teoria è perfetta, la realtà no
Il sistema italiano della tutela paesaggistica si regge su un equilibrio sottile e insieme ambizioso, disegnato dalla Costituzione. L’art. 9 pone il paesaggio tra i valori supremi della Repubblica, collocandolo nel cuore dell’identità nazionale. L’art. 117, a sua volta, assegna allo Stato la tutela dell’ambiente e dei beni culturali e affida alle Regioni il governo del territorio. È un’architettura limpida: lo Stato cura il valore, le Regioni lo declinano nella pianificazione.
Sulla carta, un disegno perfetto.
Nella realtà, però, questo modello non si realizza quasi mai.
Tra il principio costituzionale e la sua applicazione quotidiana si è aperta nel tempo non una semplice distanza, ma una voragine operativa, che travolge soprattutto i Comuni: gli enti più deboli della catena, e tuttavia gli unici che restano a garantire una tutela che non appartiene a loro.
2. La subdelega che ribalta il sistema: i Comuni dentro la tutela “per caso”
Una verità raramente esplicitata è che i Comuni non hanno alcuna competenza originaria in materia di tutela paesaggistica. Entrano nel sistema attraverso un atto di subdelega regionale, previsto dall’art. 146, comma 6, del D.Lgs. 42/2004. Senza tale subdelega, la tutela resterebbe interamente nelle mani dello Stato e delle Regioni, come la Costituzione aveva immaginato.
E invece accade l’opposto. Oggi sono i Comuni a rilasciare autorizzazioni paesaggistiche, spesso senza gli strumenti e le competenze necessarie; sono loro a proporre la prima valutazione di compatibilità visiva, morfologica e percettiva degli interventi; sono loro a rispondere dei ritardi delle Soprintendenze, alle aspettative dei cittadini e dei progettisti, alle accuse di avvocati. Un paradosso evidente: per lavorare in Soprintendenza servono lauree specialistiche, concorsi dedicati, conoscenze storico-artistiche, paesaggistiche e ambientali. Per firmare un’autorizzazione paesaggistica in un Comune, invece, può bastare un tecnico privo di qualunque formazione sul paesaggio.
È l’esatto contrario del sistema previsto dall’art. 117. La tutela, invece di restare nella sfera statale, scivola verso il livello amministrativo meno attrezzato, trasformandosi in un onere gigantesco che i Comuni non possono sostenere. D’altronde i Comuni non sono l’ente della tutela. Sono l’ente della delega.
3. Senza pianificazione paesaggistica, il sistema costituzionale si spezza
Quello fin qui esposto assume un significato – e un rammarico – ancora più profondo se si considera che il Codice dei beni culturali e del paesaggio attribuisce alle Regioni, in copianificazione con lo Stato, la redazione del Piano Paesaggistico Regionale. Questo strumento dovrebbe individuare gli ambiti di valore, riconoscere gli elementi identitari del paesaggio, definire i livelli di trasformabilità e fissare i criteri progettuali necessari a garantire compatibilità, coerenza e misura negli interventi.
Quando però il Piano è assente, incompleto o superato, l’intero sistema si blocca. Mancano le risposte essenziali: dove si trovano gli ambiti di valore? Quali sono i loro caratteri identitari? Quali trasformazioni sono ammissibili? Quali criteri progettuali devono orientare le scelte? E come integrare la tutela con le sfide attuali, come la rigenerazione urbana o la riduzione del consumo di suolo?
Là dove la pianificazione paesaggistica non c’è, o non è efficace, la tutela smette di essere un processo strutturato e condiviso. Diventa un esercizio isolato, affidato alla sensibilità – o al timore – del singolo funzionario comunale. Ogni decisione diventa opinabile, ogni valutazione rischia di apparire arbitraria. E così la tutela, anziché configurarsi come valore comune sostenuto dalla cultura e dalla Costituzione, si riduce a una procedura tecnica svuotata del suo significato più profondo.
4. Un’Italia a velocità diseguali
La disomogeneità che emerge tra le Regioni è ormai strutturale.
A più di vent’anni dall’entrata in vigore del Codice, l’Italia si presenta come un mosaico disomogeneo di strumenti pianificatori.
Alcune Regioni, più avanzate dispongono di piani paesaggistici copianificati con il Ministero della Cultura; altre operano ancora su piani parziali o strumenti provinciali datati.
In alcune, invece, il piano manca del tutto, lasciando vaste aree prive di riferimenti omogenei per la valutazione paesaggistica.
In questo scenario, la qualità della tutela non dipende più dalla legge, ma dal territorio in cui si vive.
Il paesaggio nazionale, che dovrebbe essere tutelato come un unicum identitario, si frantuma in una mappa di disuguaglianze amministrative, in cui la certezza del diritto cambia da Regione a Regione.
5. La Carta della qualità: la bussola che potrebbe orientare tutto, ma che nessuno usa
Tra gli strumenti del Piano Paesaggistico, la Carta della qualità rappresenta il cuore operativo del sistema. Prevista dall’art. 143 del Codice, dovrebbe individuare gli elementi costitutivi del paesaggio, valutarne la qualità (art. 131) e tradurre tali conoscenze in criteri progettuali chiari, verificabili e non discrezionali.
Non è un allegato descrittivo, ma un dispositivo normativo e progettuale: attraverso la Carta il piano stabilisce come intervenire, non solo dove non si può.
Laddove attuata, consente di integrare le politiche urbanistiche e territoriali secondo i principi dell’art. 145, rendendo possibile una pianificazione coerente tra tutela, rigenerazione urbana e transizione energetica.
La Carta della qualità è, in teoria, la bussola capace di trasformare il paesaggio da vincolo a progetto, da limite a linguaggio comune. Ma nella pratica è quasi sempre assente, oppure ridotta a un catalogo descrittivo che non orienta alcuna decisione. Senza di essa, il Piano perde la sua parte più innovativa; i Comuni perdono il riferimento tecnico; la tutela perde la sua oggettività.
In mancanza della Carta, la valutazione paesaggistica torna a essere un gesto solitario, non un processo condiviso.
6. La tutela non può essere scientifica, ma non può essere discrezionale
Il paesaggio non è una scienza esatta. Non si misura in chilogrammi o in metri, non risponde a formule, non si riduce a un algoritmo. È storia, percezione, identità, stratificazione di segni culturali e naturali. Non può essere un esercizio puramente scientifico.
Ma non può essere neppure un atto discrezionale del singolo funzionario. La discrezionalità, senza strumenti adeguati, diventa arbitrio; l’arbitrio, in un sistema di tutela, diventa ingiustizia.
L’unico luogo in cui il paesaggio può diventare oggettivo senza perdere la sua natura culturale è la pianificazione: il Piano Paesaggistico e la Carta della qualità sono gli strumenti pensati per fare ciò che nessun tecnico comunale può fare da solo. Dove questi strumenti mancano, la tutela smette di essere un processo e diventa un salto nel vuoto.
7. Conclusione: tornare alla Costituzione per restituire coerenza al sistema
La tutela del paesaggio, pensata come funzione alta dello Stato, diventa così un carico amministrativo sulle spalle del Comune. Una struttura nata per gestire edilizia e urbanistica ordinaria si trova a dover garantire un valore costituzionale senza avere né gli strumenti né la formazione né la legittimazione per farlo. E, come se non bastasse, è spesso l’unica che viene chiamata a rispondere delle scelte compiute.
Per ricomporre la frattura tra principio e prassi occorre tornare al modello costituzionale. Completare i Piani Paesaggistici, rendere operativa la Carta della qualità, ricostruire un dialogo reale tra Stato, Regioni e Soprintendenze, e restituire la funzione valutativa più delicata agli enti dotati delle competenze necessarie.
I Comuni devono tornare al loro ruolo naturale di attuatori, non di garanti ultimi della tutela. La bellezza del paesaggio italiano non può dipendere dalla solitudine operativa di un tecnico comunale né dalla frammentazione territoriale. La tutela deve tornare a essere ciò che la Costituzione ha previsto: un valore unitario, nazionale, condiviso e misurato attraverso strumenti adeguati, non attraverso la buona volontà dei singoli. Il paesaggio italiano non ha bisogno di eroi.
Ha bisogno di istituzioni che funzionino.
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