Diniego di subappalto: la controversia va davanti al giudice civile
Venendo al caso di specie, nel quale si discute della legittimità del diniego di autorizzazione al subappalto opposto alla ricorrente dalla stazione appaltante, non pare dubbio che la questione attenga alla fase esecutiva del rapporto contrattuale: l’amministrazione si colloca in una posizione di parità con il privato ed agisce, salvo casi eccezionali nella specie non ricorrenti, nell’esercizio di autonomia negoziale e non di poteri amministrativi. Le posizioni soggettive che vengono in considerazione sono quindi di diritto soggettivo e non di interesse legittimo.
Sotto un primo aspetto, la decisione di ricorrere al subappalto non sembra in alcun modo riconducibile alle procedure di scelta dell’affidatario (il contraente risulta già individuato), traducendosi essenzialmente in una peculiare modalità esecutiva dell’opera rimessa, come tale, alla determinazione delle parti. Ciò consente di escludere l’applicazione del criterio di collegamento individuato dall’art. 244 Cod. contr. pubbl. (radicante, come si è detto, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo)
Ne segue per un verso che le inerenti disposizioni del Codice dei contratti pubblici costituiscono, alla stessa stregua delle norme sulla c.d. risoluzione in danno, un costrutto normativo di diritto privato speciale, operando quali limiti all’esercizio di un potere (permissivo) negoziale, e che, per altro verso, l’eventuale illegittimità (recte illiceità) del diniego di autorizzazione (al subappalto) va contestata innanzi al giudice ordinario, attraverso l’allegazione dell’eventuale violazione di regole pattizie (come potrebbe ritenersi nell’ipotesi in cui la lex specialis ammetta il subappalto e l’offerta sia redatta tenendo espressamente conto di tale modalità esecutiva) ovvero dei principi generali che reggono l’attività contrattuale (ad es. buona fede
Per pacifica opinione giurisprudenziale, le disposizioni recanti devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di tutte le controversie relative alle procedure di affidamento di appalti pubblici riguardano il solo segmento pubblicistico dell’appalto, inclusi i provvedimenti di non ammissione alla gara o di esclusione dei concorrenti, e non anche la fase concernente l’esecuzione del rapporto, ove resta operante la competenza giurisdizionale del giudice ordinario, come giudice dei diritti, al quale spetta verificare la conformità alla normativa positiva delle regole attraverso cui i contraenti hanno disciplinato i loro contrapposti interessi e delle relative condotte attuative (cfr., da ultimo, Cass., sez. un., 4 febbraio 2009, n. 2634, sugli artt. 6 e 7 l. 21 luglio 2000, n. 205, e giurispr. ivi richiamata; ad analoghe conclusioni è pervenuta la giurisprudenza amministrativa, secondo cui spettano al giudice ordinario “tutte le liti afferenti ad una fase successiva alla stipula di un contratto di appalto, in quanto investono diritti soggettivi e comunque vicende nelle quali non assumono alcuna incidenza i poteri discrezionali ed autoritativi della p.a.”; così Cons. Stato , sez. VI, 10 settembre 2008, n. 4309)
Tale è la situazione determinata dall’art. 244 Cod. contr. pubbl., che appunto devolve “alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie, ivi incluse quelle risarcitorie, relative a procedure di affidamento di lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale”. Questa disposizione individua, quale criterio di riparto di tipo oggettivo, l’attinenza delle controversie alle “procedure di affidamento”, intendendosi con tale locuzione la serie di atti e attività prodromiche alla stipulazione del contratto e che appunto culminano con il perfezionamento dell’accordo contrattuale, mentre dopo tale momento il soggetto pubblico agisce (almeno di norma) alla stregua di un privato committente. Ciò vale anche per le contestazioni concernenti l’esercizio delle prerogative di autotutela, occorrendo peraltro distinguere tra: i) provvedimenti di autotutela propriamente detti, i quali, concernendo gli atti amministrativi costituenti il presupposto dell’aggiudicazione (e del contratto), sono devoluti alla cognizione del giudice amministrativo pur se intervengano nella fase esecutiva (non mette qui conto individuare il titolo di ascrizione del potere decisorio, potendosi ritenere che tali provvedimenti attengano in qualche modo alle “procedure di affidamento” ovvero, alternativamente, che operi l’ordinario criterio di riparto basato sulla posizione giuridica azionata); e ii) atti di autotutela c.d. negoziale, connessi all’inadempimento dell’appaltatore, che invece rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario stante la pariteticità delle posizioni delle parti contrattuali (v. artt. 135 e 136 Cod. cit.; per Cons. Stato, sez. VI, n. 4309/08 cit. “anche in caso di esercizio del potere di annullamento in autotutela dei provvedimenti relativi ad un contratto già in fase di esecuzione, sussiste la giurisdizione del g.a., in quanto appartiene a tale giurisdizione la risoluzione di tutte le controversie relative alla fase successiva alla stipula del contratto, ivi comprese quelle relative ad un provvedimento di sostanziale risoluzione del contratto medesimo, tranne nelle ipotesi in cui si faccia questione di inadempienze contrattuali, nel qual solo caso, infatti, vertendosi in materia di posizioni paritetiche, la giurisdizione apparterrebbe al g.o.”).
Merita di essere segnalata la sentenza numero 287 del 16 gennaio 2010 emessa dal Tar Lazio, Roma ed in particolare il seguente passaggio:
< Occorre nondimeno apprezzare la fattispecie alla stregua dell’ordinario criterio di riparto fondato sulla natura della posizione giuridica azionata (c.d. petitum sostanziale), al fine di verificare se il diniego per cui è questione sia o non espressione di poteri discrezionali conferiti all’amministrazione per la realizzazione di un interesse pubblico specifico (e dunque se, correlativamente, l’impresa ricorrente vanti o non una posizione di interesse legittimo).
È opinione del Collegio che al quesito debba darsi risposta negativa. Di fronte alla generalmente ammessa possibilità di concludere contratti c.d. derivati, in ossequio al fondamentale principio di autonomia negoziale sancito dall’art. 1322 cod. civ., alcune disposizioni di diritto comune tipizzano ipotesi (le più rilevanti nella prassi economica) di subcontratti. In tale novero rientra il subappalto, cui il codice civile dedica l’art. 1656 (oltre che l’art. 1670), a tenore del quale “l’appaltatore non può dare in subappalto l’esecuzione dell’opera o del servizio, se non è stato autorizzato dal committente”. La disposizione, chiaramente correlata alla natura fiduciaria dell’appalto (incluso dalla dottrina tra i rapporti intuitu personae), si spiega con la natura della prestazione dedotta in contratto, e dell’obbligazione di risultato cui questo è preordinato, e con la stringente necessità di salvaguardare la posizione e gli interessi del committente all’ottenimento di detto risultato. Nel settore degli appalti pubblici il principio di personalità dell’esecuzione appare maggiormente pregnante, alla luce tanto della regola generale sancita dall’art. 118 Cod. contr. pubbl. (i “soggetti affidatari […] sono tenuti ad eseguire in proprio le opere o i lavori, i servizi, le forniture compresi nel contratto. Il contratto non può essere ceduto a pena di nullità”) quanto della disciplina restrittiva in materia di subappalto. E invero, come osservato da attenta dottrina, la maggiore flessibilità in sede di acquisizione degli appalti pubblici (si pensi all’istituto dell’avvalimento), indotta dalla normativa comunitaria in vista dell’obiettivo della eliminazione di ingiustificati vincoli anticoncorrenziali, non trova analoga estensione nella fase esecutiva, stante l’esigenza di preservare tale momento da “vicende anomale sintomatiche di una gestione non trasparente delle commesse pubbliche, se non di vere e proprie infiltrazioni criminali, ovvero che potrebbero indurre la creazione di un mercato parallelo degli appalti”. Si spiega allora perché la legge, ammettendo il subappalto soltanto al ricorrere di determinate condizioni (ivi inclusa l’assenza di divieti ex art. 10 l. n. 575 del 1965 in materia di misure di prevenzione antimafia), lasci tuttavia intatto il potere autorizzatorio del committente, preoccupandosi unicamente di stabilire le conseguenze dell’inerzia dell’amministrazione (cfr. art. 118, comma 8: “la stazione appaltante provvede al rilascio dell’autorizzazione entro trenta giorni dalla relativa richiesta; tale termine può essere prorogato una sola volta, ove ricorrano giustificati motivi. Trascorso tale termine senza che si sia provveduto, l’autorizzazione si intende concessa”). >
Ma non solo
< In questa ottica, è opinione del Collegio che la disciplina del Codice dei contratti pubblici (che ricalca con differenze più o meno significative l’art. 18 l. 19 marzo 1990, n. 55) non permetta di cogliere una diversità ontologica del potere permissivo, ove esercitato dal committente pubblico, rispetto a quello conferito dall’art. 1656 cod. civ., non risultando delineato dalla normativa di settore alcun ambito di discrezionalità amministrativa entro il quale procedere alla consueta ponderazione degli interessi in gioco; di guisa che, a fronte della richiesta dell’appaltatore di poter affidare in subappalto parte dell’opera, esso committente è chiamato anzitutto a verificare l’insussistenza dei ricordati divieti di legge e, in caso positivo, a decidere se (e soltanto se) l’esecuzione potrebbe trarre giovamento dal coinvolgimento di un’altra impresa (ad es., perché specializzata in talune lavorazioni). La tesi opposta, oltre a ingenerare dubbi di tipo teorico – non potendosi ritenere che un potere negoziale istituito a presidio degli interessi di una parte contrattuale sia comunque espressivo, laddove intestato a un soggetto pubblico, di attività funzionalizzata; ciò che significherebbe tra l’altro delineare la tutela nei più rigorosi termini tipicamente connessi alla portata conformativa del giudicato amministrativo – non tiene conto della circostanza che rispetto alle disposizioni del codice civile le norme pubblicistiche sul subappalto intendono perseguire finalità, quali la prevenzione di infiltrazioni criminali e la tendenziale stabilità dell’esecutore (donde il divieto di subappalto a cascata e la fissazione di soglie di “subappaltabilità”), bensì inerenti al settore delle commesse pubbliche, ma non incompatibili con le esigenze avute di mira dal diritto comune, ivi inclusa quella, comune a ogni tipo di appalto, che l’opera venga realizzata a regola d’arte.>
A cura di Sonia LAzzini
Riportiamo qui di seguito la sentenza numero 287 del 16 gennaio 2010 emessa dal Tar Lazio, Roma